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L'Amico che mi ha cambiato, parte 8- l'abisso e la fine


di only_a_boy
20.02.2023    |    7.037    |    6 10.0
"“E’ un frocio di merda!” disse, buttandomi per terra..."
PREMESSA- Pur trovando buffo rivolgermi ai lettori (come se chissà quanti ne dovessi avere), devo precisare che il racconto contiene scene di violenza, per cui se non amate questo genere fermatevi a queste righe senza proseguire oltre. Si tratta dell'ultimo episodio della saga, grazie per chi vorrà leggerlo, sono sempre graditi commenti e feedback (anche nel caso non vi sia piaciuto).


Le cose erano cambiate molto da quando avevo accettato di rinunciare alla mia virilità, consegnando il mio cazzetto in una gabbietta metallica di cui solo Mario aveva la chiave. Era cambiata la mia quotidianità, ma era cambiato anche il mio rapporto con Mario.
La vita quotidiana era più difficile adesso: ogni erezione (e avendo solo 16 anni ce n’erano parecchie al giorno!) era punita severamente dalle strette dimensioni in cui il cazzetto era costretto, e, vuoi l’istinto di sopravvivenza, vuoi la paura del dolore, smisi progressivamente di averle. Inoltre, iniziavo a trovare eccitante il costante stato di menomazione di cui ero vittima e che ogni momento mi veniva ricordato dal peso della gabbietta che gravava sul cazzo, dal dolore se mi veniva duro, o, infine, dalla semplice scomodità di dover fare la pipì da seduto. Ogni volta che il quotidiano mi ricordava che il mio cazzo non mi apparteneva più, mi ricordava anche che apparteneva a Mario, che ero in quelle condizioni perché lo voleva lui, perché c’era questo legame tra noi.
E il mio rapporto con lui si evolveva, maturava: provavo una devozione sempre crescente e una gioia nel non sentirmi più respinto. Ora Marco non si limitava più a svuotarsi le palle nel mio intestino, mi faceva spogliare, mi accarezzava, mi mordeva il culetto, che iniziò anche a leccare (“Ah piccole’, gli etero amano il rimming”). Da quando mi ero ingabbiato il cazzo Marco mi ammirava e mi guardava felice, rendendo finalmente me felice di essere nudo davanti a lui senza la paura che si vedesse il mio pisello, che prima lo schifava. Questo problema non c’era più, era lui l’unico maschio in erezione da soddisfare, il mio pisello ora era svanito: c’erano solo i coglioni e poi sopra questi pochi cm ridicoli nascosti dalla gabbietta rosa (“te l’ho presa rosa perché sei più buffa. E poi ci sta bene, è più femminile”). Ero contento, non mi sentivo più sbagliato.
Inoltre, come lui aveva sperato, quando ero solo, non potendo più utilizzare il mio pisello in cattività, non mi restò che a concentrarmi sul mio culo, che invece era libero e voglioso, facendomi ditalini: quando lo confessai a Mario, lui ne fu contentissimo (“fai bene, ogni brava donna si fa i ditalini pensando al suo uomo”).
Sembrava comunque che fosse preoccupato anche per la mia salute: diceva che anche se ero una femmina, almeno una volta al mese dovevo svuotarmi i coglioni o avrei avuto seri problemi, ma riuscì ad impostare questa necessità in modo tale da sottolineare sempre quanto lontano fossi oramai dall’essere un maschio.
Così, il ventottesimo giorno del mese mi concedeva di stare senza gabbietta qualche attimo: me la toglieva, mi faceva stendere, coricato sulla schiena, nella grande vasca della casa dei suoi genitori e mi faceva alzare le gambe in modo tale da avere il mio cazzo all’altezza del volto. In quella posizione, piuttosto scomoda, avevo il permesso di masturbarmi, davanti a lui che rideva. E siccome ogni volta rifiutavo perché gli avevo promesso che non avrei più usato il pisello, ci pensava lui a smanettarmi l’uccello, che non finiva mai di deridere per le dimensioni e l’inutilità. In una simile situazione, l’eccitazione mi faceva durare davvero poco (causando altri motivi di derisione) e venivo violentemente colpendomi la faccia. Mario ci teneva a questo rituale mensile, lo chiamava “le mie mestruazioni”, mi obbligava ad ingoiare tutto il mio sperma e solo dopo si tirava fuori il pisello per urinare sul cazzetto “per lavarlo” diceva. E dopo una doccia, tornavo ad indossare la mia gabbietta e a ricevere il suo membro dentro di me, felice di essere la sua donna.
Credevo sarebbe andata sempre così tra noi due - un idillio in cui io ero pronta devotamente a bere il suo sperma e a riceverlo nel culo - e così, in effetti, continuò per un annetto, nel corso del quale cambiai altre due gabbiette, passando a modelli sempre più piccoli. Ogni tanto aprivo il cassetto della sua stanza dove era riposta la prima, rosa, che avevo indossato in un tempo che mi pareva remoto: in origine mi sembrava pesante e strettissima, a saperlo che dopo alcuni mesi sarei stato così avvezzo ad avere l’uccello ingabbiato che sarei riuscito a tenerne una lunga un terzo: oramai dei miei genitali erano visibili solo i coglioni, l’asta, compressa nella gabbia, era lunga non più di 4 cm. I coglioni (“le ovaie” come le chiamava Mario) non lo disturbavano, ma voleva sempre che fossero perfettamente rasate -come del resto tutto il mio corpo – perché le accarezzava spesso. Una volta, lamentandosi di una rasatura non fatta perfettamente, mi parlò della possibilità di fare la luce pulsata: “ti puntano un laser e ti bruciano i peli che non crescono più, saresti finalmente glabra come una vera donna”. “Ma quindi sarebbe una cosa permanente?” “Certo” mi disse lui. “E se poi in futuro dovessi ripensarci e volessi i peli?”. “E tu pensi a un futuro senza di me? Perché io ti voglio solo così”, mi riprese piuttosto duro.
Gli dissi che mi spiaceva, che non volevo nessun futuro senza di lui e che ero pronta a farla, ma scoperti i costi altissimi rimasi attonito. “Un modo ci sarebbe per fare i soldi che ci servono”, iniziò a dire Mario. “Dovrei trovarmi un lavoro forse? Qualcosa part-time dopo la scuola che i miei mi permetterebbero”, proseguii. “Figurati, troppo tempo per guadagnare la cifra di cui abbiamo bisogno, dovresti fare dei lavoretti per cui sei portata e che sono ben retribuiti”. Lo guardai incuriosito e gli chiesi chiarimenti. Aveva di nuovo quella luce cattiva negli occhi, che tante volte avevo visto accendersi ogni qualvolta si trattava mettermi alla prova per affermare la sua volontà sul mio corpo.
“Dovresti iniziare a prendere qualche cazzo in bocca o in culo. Io ti procurerei gli appuntamenti e ci faremmo pagare. Naturalmente dovremmo nascondere che biologicamente sei maschio, ma con un po' di trucco, una parrucca, un tanga, sarai una figa pazzesca.”.
Io non credevo alle mie orecchie: mi stava proponendo di prostituirmi. E sebbene ci fosse un po' di curiosità per questo tipo di esperienza (fino ad ora avevo conosciuto solo un uomo), ero deluso che fosse proprio lui a suggerirmi certe cose, lui che speravo si fosse affezionato a me: dopotutto non gli avevo consegnato le chiavi con cui era racchiusa la mia sessualità? Non l’avevo accolto dentro di me dichiarandomi la “sua” donna? E ora voleva fossi la donna di tanti altri.
Si accorse della mia delusione, ma proseguì “bisogna pensare alla concretezza, sarebbe un modo facile per fare soldi. Oltretutto, voglio ricordarti che le tue gabbiette le ho pagate io e sarebbe il caso di restituirmi i soldi”.
Nuovo colpo inatteso: non avevo mai pensato a quest’ulteriore aspetto e gli chiesi “quanto ti devo?” “tanto, disse lui”. Rimasi silenzioso e lui rincarò la dose un po' impermalosito: “non avevi detto che eri mia e che potevo disporre come voglio di te? Ora vedo che ci hai ripensato.”.
“Credevo che mi avresti usato per il tuo piacere e che sarei stata tua”. “Per essere veramente mia devi fare quello che voglio ed essere usata come piace a me, anche da altri se è questo che desidero”.
Un po' le sue argomentazioni (piuttosto idiote col senno del poi, ma ero un teenager innamorato) un po' la curiosità dell’esperienza nuova, accettai e mi ritrovai nel giro di pochi giorni ad indossare trucco, parrucca bionda, reggiseno (portavo la seconda), tanga e collant. Attendevo a pecora, nella penombra della stanza di Mario quando sentii la sua voce dicendomi “lei è Elena. Ricordate, avete pagato per pompa e culo, non per la figa”. Ricordate? Perché parlava al plurale? Mi aveva detto che doveva essere solo uno. Non ebbi il tempo di terminare i miei pensieri che una mano mi afferrò la testa e la schiacciò su un pube: attraverso i pantaloni sentivo un ingrossamento progressivo farsi strada. Una zip abbassata ed ecco che un cazzo mi entrava dentro fino in gola. Non avevo neanche fatto a tempo a vederlo ma ne sentivo l’odore e le dimensioni. Mentre il su e giù proseguiva, un’altra mano da dietro mi scostava il filo del tanga e mi leccava il buco. Non era Mario, conoscevo il suo modo rilassato di approcciarsi, accarezzare, leccare: questa lingua era vorace, mossa più dalla impazienza che dal piacere del momento, serviva solo come lavoro preparatorio e fu subito seguita da un affondo di un altro cazzo all’interno del mio culetto. Avrei urlato se avessi avuto la gola libera, mi stava facendo male, ma evidentemente questi due avendo acquistato un servizio erano interessati a goderselo senza preoccuparsi di non far danni. Il cazzo che avevo dietro era molto più largo di quello di Mario e proseguiva nel suo su e giù senza pietà. A un certo punto, prevedibilmente, i ruoli si invertirono ed ebbi quasi i conati di vomito nel dover accogliere in bocca un membro che sapevo essere appena stato nel mio retto (e per fortuna mi ero fatto dei clisteri preventivi!). Almeno dietro c’era più sollievo, perché il secondo cazzo era molto più piccolo, quasi non mi accorsi quando mi venne dentro, mentre il primo mi stava soffocando con il suo sperma. Li sfilarono quasi in contemporanea, mi diedero una sculacciata ciascuno, salutarono Mario con una pacca sulla spalla e se ne andarono. Io non avevo avuto neanche in tempo di guardare chi fossero o che età avessero, mi sentivo devastato. Mario si avvicinò, facendomi i complimenti, accarezzandomi e lodandomi come si accarezzerebbe una bambina (“sei stata proprio brava”). Mi diceva che erano andati via soddisfatti e che, spargendosi la voce, avremmo avuto soldi a palate. E la voce si sparse, più di quanto avrei gradito, e si presentò nuova clientela.
Non voglio fare la vittima, devo confessare che, a parte quest’inizio violento, la situazione iniziava a piacermi. Mi intrigava l’idea di nascondere totalmente me stesso dietro un travestimento femminile, vedere e sentire questi ragazzi sbavare e godere, pensando fossi una donna, conoscere (e riconoscere) i colpi e le carezze di ciascuno. Non lo facevo neanche per i soldi, visto che continuavo ad ignorare il costo delle mie prestazioni: degli affari si occupava Mario e non ammetteva interferenze. In questo turbine di sensazioni nuove non mi accorsi neanche che il mio rapporto con il mio uomo stava cambiando di nuovo: oramai venivo da lui per farmi scopare da altri, non sembrava più avere desiderio di penetrarmi (ma un po' di riposo non mi dispiaceva, visto che alcuni giorni dovevo accoglierne dentro tre o quattro consecutivi), non c’erano più effusioni tra noi, non mi coccolava più. Alla lunga iniziai ad immalinconirmi, sembra stupido ma ogni tanto, dopotutto quello che mi era successo, ancora fantasticavo che mi baciasse. Il motivo del suo disinteressamento e della sua apparente continenza mi venne reso noto quando sentii da amici comuni che Mario si era fidanzato. Ovviamente con una vera femmina, di due anni più grande. Mi crollò il mondo addosso: io malgrado tutto mi sentivo sua, gli avevo consegnato il mio cazzo, il mio culo (sia per sé che per gli altri), davo per scontato che lui fosse mio.
Quando mi recai a casa sua gli feci una scenataccia, che in parte subì, in parte lo contrariò. Lui cercava di giustificarsi, dicendo che bisognava essere concreti, che voleva una donna vera, che lui non era frocio. “E poi ti ho regalato questo mondo dove sei fottuto da tanti maschi, è il tuo sogno, stai bene anche tu così”. “Si, io prendo i cazzi e tu prendi i soldi!” dissi beffardo, pur avendo le lacrime agli occhi. “Se non ti va più non devi farlo per forza, te ne vai e la finiamo qui”. Tante volte una minaccia simile mi aveva trattenuto, fatto esitare alla prospettiva di perderlo. Ma ora iniziavo a capire che non avevo più nulla da perdere, così gli risposi: “Si, è meglio!”.
Lo vidi sorprendersi, impallidire: non mi aspettavo di poter suscitare una simile reazione, sembrava quasi avesse paura. Osservandolo meglio, capii che era turbato non dalla mia risposta ma da qualcosa che aveva visto fuori dalla finestra. Mi sporsi anche io e notai un gruppo di ragazzi che si stavano avvicinando alla casa, uno di loro citofonò. Al suono del campanello Mario fu totalmente in preda al panico, non l’avevo mai visto così e, malgrado tutto, mi preoccupai. Cosa stava succedendo?
“Euge’, questi qui sono persone pericolose, alcuni sono stati al riformatorio, è gente che mena. Hanno sentito parlare di te e vogliono trombare pure loro. Questi ora mi ammazzano se non ti trovano e ci ammazzano se scoprono che sei un maschio. Ti prego Eugenio, vestiti da donna e sodisfali, o mi fanno fuori, ti scongiuro”. Il grande Mario, il mio antico fratello maggiore che idolatravo, l’uomo che veneravo, eccolo lì, spaurito come un bambino… Malgrado tutto, mi si strinse il cuore, così lo rassicurai, gli dissi che l’avrei fatto per l’ultima volta. Indossai il mio solito “costume”, attendendo a pecorina che salissero. Dal rumore che sentivo dalle scale sembravano in parecchi e, in effetti, entrarono ben cinque ragazzi, seguiti da Mario, pallido come un morto. Li osservavo con la coda dell’occhio, non so che età avessero, ma tatuaggi, muscoli e facce da delinquenti erano tutti elementi che non sembravano fatti per rassicurarmi.
“E’ questa la troia?” chiese uno di loro avvicinandosi a me. “Si” - rispose Mario con un filo di voce - “si chiama Elena, potete fare quello che volete, bocca e culo ma niente figa che ha il mestruo”. Quest’ultimo dettaglio fece storcere il naso al ragazzo, che sembrava essere il capo. In seguito, avrei scoperto che il galantuomo poteva vantare già un bel curriculum: era già finito in riformatorio, tentato qualche scippo e menato senza pietà alcuni ragazzi perché -buffo dirlo data la situazione – erano froci e lui era omofobo. Per il momento, invece, mentre cercavo di sorridere seducente, osservavo un corpo ben fatto, purtroppo deturpato da tatuaggi alle braccia, un viso ovale e un po' scavato alle guance, un naso sottile, capelli castani, tagliati cortissimi, e due fessure marroni come occhi, da cui partiva lo sguardo autoritario proprio di chi è avvezzo ad essere obbedito.
Toccava a me muovermi. Un po' tremando gli avevo sbottonato la patta e tirato fuori un cazzo barzotto, che puzzava di piscio, per accoglierlo nella mia bocca e cercare di succhiare come d’ordinario. Certo, avere quel pubblico di ragazzi che osservava minaccioso, a braccia incrociate, non mi aiutava, ma cercavo di dissimulare e dare piacere: prima avrei iniziato e prima avrei finito, mi dicevo. Il ragazzo voleva darsi contegno, non ansimava, ma il cazzo che cresceva nella mia gola era segno che il servizietto non lo lasciava indifferente. Ben presto prese l’iniziativa e, come tanti altri che lo avevano preceduto, scopò la mia bocca fino in fondo. Non era piacevole, colpi troppo forti, malgrado l’esperienza acquisita faticavo a respirare. Finalmente, rivolse le sue attenzioni anche al mio culetto, sfilandomi il cazzo dalla gola: mi arrivarono prima due o tre sculacciate, poi sentii il filo del tanga spostarsi e uno sputo, piuttosto rumoroso, inumidirmi il buco, poi eccolo ad iniziare l’entrata.
Era un cazzo paurosamente largo e dovevo contenermi per non urlare. Quando arrivò alla fine, iniziò la sua cavalcata. Avrei resistito, sperando di farlo venire presto e tutto sarebbe finito, me ne sarei andato via da questo schifo, via da Mario che mi aveva messo in questa situazione. Si, si trattava solo di resistere un altro po'. Purtroppo, invece, nella foga allungò entrambe le sue mani davanti, volendo forse farmi un ditalino, e la scoperta di un rigonfiamento lo fece raggelare.
Sfilarsi dal mio culo e urlare “Ma che cazzo è???” fu questione di un attimo. Mi strappò il tanga e tutti videro la gabbietta, coi coglioni penzoloni. “E’ un frocio di merda!” disse, buttandomi per terra. Mario, nel mentre, aveva provato a scappare ma era stato prontamente fermato dagli altri ragazzi, che lo tenevano fermo alle braccia mentre Rasoio (così era soprannominato quello che mi aveva appena scopato) gli si avventava contro, insultandolo e prendendolo a schiaffi. “Mi hai rifilato un frocio di merda! Ma come ti permetti brutto stronzetto?”. Mario piagnucolava, diceva che non lo sapeva, che l’avevo ingannato, che credeva che fossi femmina, che non era colpa sua. Dal canto mio avevo gli occhi lucidi: non avevo paura di quello che mi sarebbe potuto succedere, ma mi addolorava il vedermi scaricato in questa maniera.
Rasoio – che nel frattempo si era rimesso i pantaloni – era fuori di sé dalla rabbia e colpì Mario allo stomaco, facendolo sbattere contro il mobile, da cui caddero fuori le gabbiette che in questi mesi avevo indossato.
“Guarda che schifosi, questi froci si ingabbiano il cazzo e si fanno rompere il culo. E si spacciano pure per femmine!”, disse uno del gruppo. “Adesso te la faccio passare io la voglia di farmi inculare un mezzo maschio, brutto frocio”, mormorò Rasoio. Ad un cenno dei ragazzi Mario, che era ancora sul pavimento, venne alzato, gli vennero strappati di dosso i pantaloni e le mutande: per la paura il suo cazzo, di cui in altri tempi avevo ammirato la grossezza, era diventato minuscolo. Due ragazzi lo bloccavano per le braccia, altri due, a un ordine di Rasoio gli infilarono il pisello nella mia prima gabbietta rosa, chiusero il lucchetto e tolsero la chiave. Lo sbatterono poi su un tavolo a pancia in giù, in modo tale da offrire il suo culo a Rasoio, che dal canto suo si era avvicinato tirando fuori nuovamente il cazzo, stavolta in erezione.
“Mi volevi fottere rifilandomi un frocio? E ora io fotto te, brutto stronzetto”. Passò dalle parole ai fatti, penetrando quel povero culo vergine con molta più foga di quanta ne aveva riservata a me. Mario piangeva, doveva sentire parecchio dolore, senza parlare dell’umiliazione senza fine per quello che stava subendo. Io rimasi a guardare, con le lacrime agli occhi. Avrei dovuto forse, secondo i canoni romantici che mi avevano animato fino al giorno prima, chiedere di lasciarlo stare, dichiararmi colpevole e supplicare di prendere me al suo posto, immolarmi per salvare il mio uomo.
Ma, dopo aver saputo che mi aveva tradito, dopo averlo ascoltato mentre cercava di scaricare su di me ogni conseguenza delle sue azioni, non ebbi altro impulso se non quello di rimanere in silenzio ad osservare la sua virilità che veniva fatta a pezzi. Stare fermo e zitto, comunque, non mi esonerò dalle loro attenzioni: a un cenno di Rasoio, sempre intento a cavalcare Mario, gli altri, alternandosi a due a due, iniziarono ad usare i miei buchi, bocca e culo, fino a che tutti si scaricarono dentro di me.
Durante le penetrate, ogni tanto buttavo un occhio verso Mario, che subiva sulla tavola un supplizio piuttosto lungo: purtroppo per lui, Rasoio era un maschio che durava. Quando gli venne nel culo, con uno strattone lo buttò giù dal tavolo e lo mise per terra, accanto a me. Tutti loro ci accerchiarono, con i cazzi da fuori, scarichi di sperma e oramai mosci. Mario era come in trance, io invece, quasi riconoscendo un vecchio copione, sapevo cosa stava per accadere: ben presto tutti e cinque i piselli iniziarono a inondarci di piscio, coprendoci letteralmente la testa, il volto, il corpo, i vestiti. Mario non sembrava reagire, guardava per terra, umiliato: aveva il cazzo ingabbiato, era stato deflorato, gli avevano eiaculato dentro e ora doveva ricevere la pipì dei maschi. Non avrebbe mai immaginato di vivere quelle stesse cose che aveva fatto subire a me in quei mesi.
Finito l’ultimo trattamento, i ragazzi si ricomposero, noi restavamo immobili nel lago di piscio. Io con la coda dell’occhio vidi Rasoio prendere i pantaloni di Mario, che erano rimasti per terra, e tirare fuori il suo portafoglio. Dopo aver contato i soldi che conteneva, se li mise in tasca: a vederli da lontano sembravano parecchi, così finiva tutto il danaro ottenuto con le mie prestazioni. Rasoio prese la chiavetta che era vicino al portafoglio, la mia chiavetta, quella che mi apriva la gabbietta, e la unì a quella che aveva chiuso il lucchetto della gabbia di Mario e se le mise in tasca. Tutti e cinque scesero le scale e se ne andarono, lasciandoci soli.
Io dopo un po' mi risistemai e mi rivestii da uomo ed invitai Mario a fare altrettanto. Nudo dalla vita in giù, col culo dolorante, con il cazzo ingabbiato nella gabbietta rosa, sembrava proprio un bambino, non il prode maschio alfa che si era divertito per mesi nel mio corpo.
“Devo pulire tutto prima che arrivino i miei… e che dolore.. E poi, Eugé, si sono portati via le chiavi, come si toglie questa cosa? Mica posso restare come te che sei frocio, io devo liberarmi, come si apre?”.
“Ah, non so, potresti chiedere alla tua nuova ragazza, io non posso aiutarti: non accetterai mica consigli da uno che ti ha tratto in inganno facendosi passare per femmina vero?”
Mi guardò senza capire, già si era scordato delle frasi con cui aveva cercato di addossare a me ogni colpa. “Eugè, mi fa male il culo e non posso stare così ingabbiato, ho la ragazza, come faccio se mi vede così?”
Io che mi ero rivestito mi sono avvicinato per dargli una carezza sulla testa, l’ultima. Lo guardai ancora un’ultima volta e gli dissi: “benvenuto nel mondo in cui mi avevi sistemato, ti auguro di trovarti bene” e me ne andai.
Non ci parlammo più, in classe evitavamo di stare vicini, non incrociavamo neanche lo sguardo. In molti tentarono di scoprire cosa fosse successo e, non trovando risposta né da me né da lui, iniziarono a immaginare un litigio per qualche donna misteriosa di cui entrambi saremmo stato innamorati. Questa spiegazione sembrava anche far capire come mai il prode Mario, che era fidanzato con una strafiga, si fosse lasciato improvvisamente, rimanendo single.
Io di mio avevo ragione di sospettare che il problema fosse sia di natura meccanica (forse non era stato in grado di togliersi la gabbietta, a differenza mia che oramai ero abbastanza smaliziato da ricorrere a un fabbro, si intende dietro pagamento in natura) sia di natura fisica: dopotutto quando provi il cazzo è difficile rinunciarci e tornare a fare il maschio alfa.
Non mi interessai più comunque della sua vita e un pomeriggio, quando ero andato a vedere i quadri per gli esami di stato, notai il suo volto riflesso sul vetro, mi girai e me ne andai, evitandolo. Fu l’ultima volta che lo vidi.
Di mio ho archiviato questa esperienza ben presto, imparando a gestire le mie priorità: i giochi di sottomissione mi piacciono ancora, ma restano sempre giochi nell’ambito di una camera da letto, la vita è sempre pronta a darci colpi duri da sopportare, è bene circondarsi di persone amiche e che tengono a te, non di gente che vuole usarti come un giocattolo.
E, curiosamente, dopo tanto tempo passato a tenere il pisello in gabbia, andando in avanti con gli anni, ho sentito persino il bisogno di essere attivo, con gente più giovane, ritrovandomi a impersonare il ruolo di dominante. Ma, anche in questo caso, ho cercato sempre di metterci il rispetto, perché al di là del gioco volevo sempre vedere delle persone, non delle cose.
In fin dei conti, quelle mie prime esperienze con Mario, per quanto impegnative e in parte sofferte, si sono rivelate un perfetto elenco di situazioni che non volevo più subire. Sapendo cosa evitare, in un certo senso mi sono ritrovato in mano una bussola per individuare quello che volevo nella vita. Sarà per questo che, al di là di tutto, ancora oggi non provo rancore verso l’”amico” che, tanti anni fa, usandomi per i suoi pruriti adolescenziali, mi aveva cambiato.
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